2011 - Storia delle riforme pensionistiche

 

2011 Storia delle riforme pensionistiche

All’alba del 1992, sia la crisi politico istituzionale dovuta a “tangentopoli”, sia la crisi dei conti pubblici, decretarono la fine delle “proposte” e delle discussioni e si avviò una riforma complessiva del sistema previdenziale. In particolare, si distinguono tre fasi di grande importanza riformatrice negli anni Novanta.

Riforma Amato del 1992. Il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n.503 si pone lo scopo di stabilizzare il rapporto tra la spesa previdenziale e il prodotto interno lordo (PIL), introdurre forme di previdenza complementare e integrativa, mantenere e garantire un adeguato trattamento pensionistico obbligatorio per tutti. L’età pensionabile è elevata da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 anni per le donne. La contribuzione minima per la pensione di anzianità è elevata da 15 a 20 anni di contributi. L’indicizzazione delle pensioni è slegata dalla scala mobile salariale e agganciata all’indice dei prezzi al consumo (inflazione) fornito dall’Istat.

Riforma Dini del 1995. La legge n. 335 dell’8 agosto 1995 recepisce un accordo siglato tra Governo e parti sociali nel 1995. Il sistema di calcolo previdenziale passa dal criterio retributivo (media delle retribuzioni negli ultimi 10 anni di lavoro) al sistema contributivo, quest’ultimo basato sull’effettivo ammontare di contributi versati dal lavoratore durante la propria vita lavorativa. La previdenza complementare viene disciplinata mediante l’avvio dei fondi pensione.

Riforma Prodi del 1997. La legge n. 449 del 27 dicembre 1997 modifica l’impianto della riforma Amato del 1992, adeguandolo con gli accordi stabiliti tra governo e sindacati e con l’esigenza di riordinare i conti pubblici, al fine di garantire l’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea. La riforma Prodi si caratterizza per l’inasprimento dei requisiti d’età per l’ottenimento della pensione di anzianità, per l’incremento dell’onere contributivo dei lavoratori autonomi, per l’equiparazione delle aliquote contributive dei fondi speciali di previdenza e l’eliminazione di alcune condizioni riconosciute ai lavoratori durante il periodo di transizione al sistema contributivo.

La legge delega n. 243 del 2004 (comunemente detta riforma Maroni) e il decreto legislativo n. 252 del 2005 approvati dal governo Berlusconi sono l’ultimo atto di un processo di riforma iniziato nel 1992. Obiettivo di fondo di questi interventi è stato quello di assicurare al sistema pensionistico una sostenibilità finanziaria, obiettivo al quale per intervento sindacale si è affiancato quello di assicurare una maggiore equità nel sistema attraverso una armonizzazione dei diversi regimi pensionistici. In particolare l’innalzamento dell’età anagrafica e/o contributiva per accedere al pensionamento di anzianità è stato spalmato tra il 1996 e il 2008, mentre il nuovo sistema di calcolo contributivo è stato applicato integralmente ai soli lavoratori assunti dopo il 1995 e pro quota per i periodi di lavoro successivi al 1995 ai lavoratori con meno di 18 anni di contribuzione prima del 1996. L’innalzamento dell’età pensionabile è lo strumento principale indicato dall’Unione Europea per affrontare i problemi di sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici (il presupposto è che un pensionamento più tardivo consente di limitare la crescita del tasso di dipendenza degli anziani prodotto dall’invecchiamento della popolazione e riduce la dinamica della spesa pensionistica).

Dunque la riforma Maroni del 2004 si è posta in questa ottica, elevando l’età anagrafica per il pensionamento di anzianità: in particolare, l’età necessaria per accedere a questa forma di pensionamento sale a 60 anni per tutti a partire dal 2008, fermo restando il requisito contributivo di 35 anni. Nel 2010 il requisito di età sale a 61 anni e nel 2014 a 62. Requisito alternativo, a partire dal 2008, come già fissato dalla legge n. 335 del 1995, per l’accesso al pensionamento sono i 40 anni di contribuzione, a prescindere dall’età anagrafica. Per i lavoratori autonomi i requisiti anagrafici sono superiori di un anno a quelli fissati alle varie scadenze per i lavoratori dipendenti. La legge n. 243 prevede, inoltre, la riduzione da 4 a 2 delle finestre di uscita per chi matura i requisiti del pensionamento di anzianità, con il conseguente ulteriore innalzamento dell’età pensionabile. L’innalzamento dei limiti di età non riguarda solo il sistema retributivo o misto, ma anche quello contributivo. Per i lavoratori la cui pensione è liquidata esclusivamente con questo sistema, il requisito anagrafico minimo previsto è elevato a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini. Gli uomini potranno, inoltre, accedere al pensionamento se in possesso di un’anzianità contributiva di almeno 35 anni a 60, 61 o 62 anni di età rispettivamente nel 2008, 2010 e 2014. L’accesso al pensionamento resterà possibile a prescindere dal requisito anagrafico, in presenza di un requisito di anzianità contributiva pari a 40 anni.

A fine 2007 è stata adottata la legge 24 dicembre 2007, n. 247 che ha modificato le disposizioni contenute nella legge n. 243/2004 che sarebbero dovute entrare in vigore a partire dal 1° gennaio 2008 e che avrebbero comportato l’immediato innalzamento da 57 a 60 dell’età anagrafica (si parlò infatti di “abolizione dello scalone”). La legge n. 247/2007 ha, comunque, previsto una modifica dei requisiti per il diritto alla pensione di anzianità, ma in maniera più graduale, ed ha introdotto, a partire dal 1° luglio 2009, il “sistema delle quote”. In particolare, per quanto riguarda i lavoratori dipendenti i requisiti per poter accedere alla pensione di anzianità sono i seguenti: dal 1° gennaio 2008 al 30 giugno 2009 sono richiesti almeno 58 anni di età e 35 anni di contribuzione; dal 1° luglio 2009 al 31 dicembre 2010, la quota da raggiungere è 95 con un’età anagrafica minima di 59 anni ed una contribuzione minima di 35 anni; dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2012 la quota da raggiungere è 96 con un’età anagrafica minima di 60 anni ed una contribuzione minima di 35 anni; a decorrere dal 1° gennaio 2013 la quota da raggiungere è 97 con un’età anagrafica minima di 61 anni ed una contribuzione minima di 35 anni. Nello stesso tempo, si conferma che al raggiungimento dei 40 anni di anzianità lavorativa si può accedere ai requisiti a prescindere dall’età anagrafica.

Con il nuovo governo di centrodestra, la manovra finanziaria 2010 stabilisce, a partire dal 1° gennaio 2015, l’innalzamento dei requisiti per le pensioni di vecchiaia e di anzianità, mentre per le dipendenti del pubblico impiego conferma il requisito di 65 anni per la pensione di vecchiaia dal 2012. Rispetto alla riforma del 2009 (vedi tabella), il ritmo degli adeguamenti dell’età pensionabile all’aumento medio della vita non è più ogni 5 anni, ma ogni 3, tranne che per il primo scaglione (4 anni). Inoltre, compare la “finestra mobile” che si apre dopo 12 mesi per i dipendenti e dopo 18 mesi per i lavoratori autonomi: si noti il danno dato dal fatto che la contribuzione eccedente i 40 anni è infruttifera per il calcolo della pensione con il sistema retributivo e, al massimo, si può ottenere un modesto incremento dell’assegno se negli ultimi mesi si riceve un forte aumento di stipendio che fa salire la base pensionabile. Ancora, a partire dal 2010 c’è la diminuzione dell’aliquota sul calcolo della pensione (ogni tre anni). Dal 1° gennaio 2010 sono entrati in vigore i nuovi coefficienti di trasformazione del montante contributivo in rendita come previsto dalla legge n. 247 del 2007, attuativa dell’Accordo Welfare del 23 luglio 2007. La normativa ha istituito anche una nuova tempistica e una diversa procedura per la revisione periodica dei coefficienti: la revisione da decennale è diventata triennale e da procedimento politico-amministrativo è stata mutata in procedimento esclusivamente amministrativo.

Infine, con il Decreto Legge n. 201/2011 (il famoso decreto salva Italia, che contiene la riforma Fornero), da un lato si passa al sistema contributivo pro-rata per tutti dal 1 gennaio 2012; dall’altro, si innalza ulteriormente il livello minimo di età pensionabile: l’età minima di pensionamento passa da 60 a 62 anni per le lavoratrici dipendenti (che diventeranno 64 nel 2014, 65 nel 2016 e 66 nel 2018; le lavoratrici autonome dovranno lavorare un anno in più), e 66 anni per gli uomini. È introdotta una fascia flessibile di pensionamento, differenziata tra donne (63-70

 

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