2011 – Autobiografia (data presunta)

Più volte, negli ultimi anni, la mia compagna mi ha sollecitato a mettere su carta la mia esperienza politica ed in particolare il periodo che va dal 1966 al 1990, in relazione alle vicende del quartiere Trieste/Salario, dove vivo dal 1966 e dove ho operato, come militante comunista, nella sede di via Tigrè. In questo quartiere sono stato presente in modo attivo ed in più occasioni vittima e protagonista di lotte per fermare la violenza fascista ed affermare valori ed ideali forti.

Non ho scritto un rigo, non per pigrizia, ma in quanto ritengo che il mio vissuto non possa interessare più di tanto e che la mia vita di militante comunista non è stata e non è niente di eccezionale. Certamente nello scrivere non sarei obiettivo come non lo sono tanti compagni e compagne che hanno lasciato memorie ed autobiografie.

Dato che la mia compagna sta cercando di mettere in fila, di dare ordine ed un senso ai tanti episodi di cui sono stato un soggetto attivo nei quartieri Trieste/Salario dal 1966, provo a fissare date e periodi e ad evidenziare alcuni momenti più importanti da quando, nel 1951, sono entrato nel Pci, nel mio paese, Brisighella.

Penso sia utile per capire come il periodo 1966/1990 si colleghi al mio agire sia prima che dopo.

 

Qualche breve accenno alla mia famiglia ed al mio impegno politico a Brisighella, si trovano nell'opuscolo “1950-1960. Episodi di un tempo che fu in un borgo che c'è: Brisighella” curato da mio fratello Adriano.

In quel periodo ho incontrato compagni e compagne straordinari, dirigenti e militanti (Galliani, Ravassol - l'anarchico, Delmo – il fabbro, Dalle Fabbriche, Visani, Scipi – altro fabbro, i Cavina – Elio si iscrisse con me alla Fgci, Laghi, Piancastelli, Mucinelli, Poldo, Zoffoli, Giberti, Mararini) solidali e generosi che mi hanno dato fiducia , coscienza di classe, cultura e forti ideali (ero stato in seminario ed ho operato per qualche anno nell'azione cattolica).

A 19 anni ero già capo lega dei braccianti eletto con voto segreto.

Dal 1951 al 1961 i sono fatto le ossa temperandomi in uno scontro politico che si misurava nella lotta quotidiana per il lavoro e la sua dignità, in una battaglia ideale che molte volte ha coinvolto il clero.

Brisighella era, allora, un comune dove la DC dominava e dove la chiesa era presente in modo massiccio, ossessivo e tentacolare, era un paese con un'economia agricola dove il reddito ed il salario provenivano solo dal lavoro della terra: mezzadri, braccianti, agrari e qualche coltivatore diretto. La chiesa possedeva circa 200 poderi, più 2.000 ettari di terra.

Documenti sull'attività politica e sociale di quegli anni si trovano nell'archivio del Municipio (ad esempio i verbali dei Consigli), nell'archivio di “Don Conti” che non so che fine abbia fatto (conteneva una poderosa raccolta di materiali originali), come pure, ricordo, erano pieni gli armadi della stazione dei carabinieri. Altro materiale lo sta lodevolmente raccogliendo Viscardo a Brisighella. E' certamente di grande interesse il recupero della storia dei comunisti di Brisighella perseguitati dai fascisti e condannati dal tribunale speciale. Per quanto attiene i partigiani che erano attivi nel brisighellese, sarebbe bene scriverne, raccogliendo testimonianze prima che il tempo le cancelli.

Dai primi del 1962 ho operato, fino al febbraio 1966, nella Federbraccianti di Ravenna, quale segretario di ben 30.000 braccianti e salariati. Materiali di quel periodo si trovano nell'archivio della Camera del Lavoro di Ravenna ed in alcune altre Camere del Lavoro: Faenza, Lugo, Conselice, Massalombarda, Alfonsine ed altre. Sono stati 4 anni di lotte straordinarie animate dalle lavoratrici che erano la maggioranza della categoria: donne con un'alta coscienza di classe, quasi tutte comuniste.

Abbiamo messo sotto scacco le aziende agrarie liquidando, di fatto, la compartecipazione e costringendo quelle condotte con salariati a concedere diritti e salari più alti; lo scontro ha portato all'acquisto di migliaia di ettari di terra da parte delle cooperative dei braccianti che, purtroppo, oggi sono diventate aziende capitalistiche. Ci sono stati, in quel periodo, straordinari episodi di lotta, di solidarietà che andrebbero valorizzati.

Ricordo alcuni compagni e compagne straordinari con cui ho collaborato, ne apprezzavo soprattutto l'impegno ed il sacrificio sorretti dal “credo” nella lotta di classe e nel comunismo, come risposta definitiva allo sfruttamento e alle ingiustizie, alla povertà: Maria Bassi, Marconi, Mannucci, Panieri … unitamente a tanti capi lega, uomini e donne tosti, stimati (capipopolo), fedeli alla classe ed al partito.

Di quei 4 anni voglio ricordare due scelte che furono tollerate (certamente non condivise da una parte dei dirigenti sindacali). Una fu la costituzione della cassa di resistenza con un regolamento preciso che, per la parte delle entrate, iniziò subito ad incassare, ma poi non diventò mai operativa. L'altra scelta fu la forzatura del regolamento congressuale della Federbraccianti del 1966, che conclusi da dirigente nazionale.

Decidemmo che le assemblee di lega dovevano eleggere il Comitato direttivo di lega ed i delegati al congresso provinciale dando pari dignità al sesso fra uomini e donne. Con lo stesso criterio furono eletti i delegati al congresso nazionale ed i componenti del Comitato direttivo provinciale. La maggioranza, in molti CD di lega, nel CD provinciale e fra i delegati al congresso nazionale risultarono lavoratrici e fu eletta segretaria provinciale Maria Bassi.

Tra le mie carte c'è la documentazione di quel congresso. Altro materiale di quel periodo è contenuto in un opuscolo (che ho curato) su Agide Samaritani, segretario provinciale della Camera del Lavoro ed in un mio intervento in occasione della commemorazione di Costante Manzoni.

Nel periodo 1962/1966 le lotte organizzate dalla Federbraccianti di Ravenna sono state – e di questo me ne rendo conto solo ora – anticipatrici del grande Movimento del 1968 per natura, durata e radicalità.

Dal 1966 fino al maggio del 1977 ho operato nella Federbraccianti nazionale. Documentazione delle attività che ho svolto si trova presso l'archivio Flai/Cgil. Molti miei scritti, anche se non firmati, si trovano nel mensile “Lotte agrarie” che ho curato per anni. Alcuni articoli in “Rassegna sindacale” della Cgil, in particolare un articolo dal titolo “La Puglia brucia”, non ricordo se nel 1967 o 1969 pubblicato per metà perchè il seguito, annunciato nel numero successivo, non fu pubblicato, credo per ragioni politiche. L'articolo si riferiva ai 40 giorni di sciopero dei braccianti, al loro coraggio ed alla natura delle rivendicazioni.

Negli atti dei congressi (pubblicati) si trovano le mie relazioni ed interventi. Altro materiale è rappresentato da opuscoli e dispense di cui mi sono occupato per lungo tempo.

Negli 11 anni di permanenza alla Federbraccianti nazionale ho contribuito alla istituzione della delega sindacale sul sussidio di disoccupazione (Inps) cosa di cui mi pento.

Credo di aver dato un contributo a definire una linea sindacale in un periodo di profonda trasformazione dell'agricoltura. Sono orgoglioso di aver tentato di portar avanti rivendicazioni per una parità reale tra lavoratori e lavoratrici sul terreno contrattuale e previdenziale e nell'avviamento del lavoro. Non solo di aver “forzato” per uno spazio e ruoli maggiori delle donne nel sindacato, anche se non sono riuscito a ripetere l'esperimento fatto a Ravenna con il congresso del '66. Voglio ricordare, tra le tante iniziative, il convegno di Abano Terme (più di 1.000 delegati presenti) in cui fui relatore.

Quello che mi preme rimarcare è la coscienza di classe, lo spirito di sacrificio, la volontà di lotta e di resistenza dei faticatori del Sud ed in particolare di quelli foggiani e baresi.

Ho vissuto in Puglia scioperi anche di 40 giorni nel '67, nel '69, nel '71. H partecipato a blocchi stradali e dei mercati, ho parlato con decine di piazze stracolme di scioperanti. In diverse piazze sono tornato con Bertinotti (Prc) nel 1995 per contrastare la legge sulle pensioni del governo Dini, purtroppo appoggiata anche dalla Cgil.

Le Leghe pugliesi mi avevano adottato, mi consideravano uno di loro … e pensare che venivo dal Nord! Ci univano forti ideali, l'odio per gli agrari, per i governanti, per la Magistratura che continuava ad emanare sentenze di condanna contro i faticatori. Quella fierezza, quella coscienza di classe mi ricordava Di Vittorio che da bracciante analfabeta era diventato il massimo dirigente della Cgil ma, purtroppo, oggi i “burocrati” del sindacato sembrano averlo dimenticato, anzi tradito nel momento che hanno accettato come ineluttabile(giusto) lo sfruttamento.

In Puglia ho imparato a praticare la democrazia “vera”. Tutte le sere, in tutte le piazze, prima e durante lo sciopero, si riunivano i braccianti per decidere e rivendicazioni, le forme di lotta: dai blocchi stradali e dei mercati, ai cortei, alle occupazioni dei Municipi. Piazze stracolme (Cerignola, S. Severo, Ortanova, Ruvo, Gravina, Altamura, Canosa …).

Dirigevano quelle Leghe e Camere del Lavoro braccianti che faticavano in campagna, anche se con poca cultura, poveri ma ricchi di coraggio, abnegazione, intelligenza, ideali comunsiti, onestà: erano capipopolo. Molti di loro sono diventati Sindaci ed anche parlamentari: Gramegna, Sicolo, Dicorato … Quel Movimento è stato più volte frenato da compromessi, fatti a Roma, anche dal Pci.

Per due volte, per convincere gli scioperanti ad accettare un contratto non soddisfacente, si scomodarono dirigenti nazionali del Pci e scesero in Puglia esponenti sindacali di primo piano, fra cui il segretario generale della Federbraccianti, Caleffi, che fu pesantemente contestato ad Andria, a piazza Catumnia. Ovviamente io fui richiamato a Roma, perchè le piazze le incendiavo stando con le sacrosante ragioni dei braccianti.

Cisl e Uil non hanno mai partecipato d uno sciopero. Li trovai però nelle trattative, preoccupati solo di mettere fine agli scioperi.

Con tanti di quei capilega è sempre rimasto un forte rapporto, ero diventato uno di loro. Anche quando non operavo più nella Federbraccianti venivo richiesto, per i comizi del I , sia in Puglia che in Calabria (altra regione dove ho conosciuto lavoratori straordinari, da Melissa a S. Giovanni in Fiore a Longobuco, dalla piana di Gioia Tauro ai forestali della Sila e per Sila, dalle produttrici di gelsomino alle raccoglitrici di olivo.

Dal maggio 1977, dopo il congresso della Federbraccianti, ho operato all'Inca come responsabile dell'Organizzazione e V/Presidente.

Diversi compagni della Cgil consideravano l'Inca e lo Spi il “cimitero degli elefanti”, cioè il parcheggio dei dirigenti stanchi, ammalati o superati.

Avevo 44 anni e mi sentivo un “rivoluzionario di professione” in quanto qualsiasi ruolo mi fosse dato, io intendevo lavorare per il socialismo ed il comunismo.

All'Inca, da subito, mi impegnai per la valorizzazione delle compagne. Erano tante, sia nella sede centrale che in periferia, relegate a ruoli impiegatizi. Il mio impegno ebbe risultati più che apprezzabili. Invece i risultati furono minori nella prevenzione degli infortuni e delle malattie causati dal lavoro. “La salute non si baratta, non si vende ...” erano gli slogan del '68 operaio. A quella battaglia aveva dato un forte contributo Rosario Bentivegna e Gastone Marri. Purtroppo le piattaforme sindacali (in occasione dei rinnovi contrattuali) l'azione e la vigilanza nelle aziende non avevano più al centro la vita e la condizione di chi lavora, eppure gli infortuni erano (e sono) ogni anno più di un milione, i morti più di 1.000, i menomati permanentemente più di 30.000.

Altra scelta su cui misi molto impegno fu il “contenzioso” con gli Enti previdenziali: Governo, datori di lavoro, Inps, erano controparti. Il diritto negato ad un singolo per carenza legislativa, burocratismo, interpretazioni (volutamente) sbagliate e fiscali vennero combattuti su due piani: quello rivendicativo (modifica della legislazione) e quello legale, attivando contenziosi di massa e nei confronti degli Enti. Qualcuno chiamava ironicamente questa scelta “la via legale al socialismo”, ma si ottennero risultati positivi per centinai di migliaia di lavoratori e lavoratrici.

Ho considerato l'Inca un “pezzo” di sindacato, parte organica della Cgil e di tutti i suoi sindacati di categoria. Una struttura che avanza proposte per una migliore legislazione sociale e previdenziale e indica norme contrattuali per la difesa della vita nei luoghi di lavoro. In quegli anni si è lavorato molto per trasformare i 1.300 impiegati all'Inca in sindacalisti e per formare migliaia di delegati dell'ambiente e della sicurezza sociale.

Oggi 'Inca e lo Spi sono strutture fortemente burocratizzate che producono tessere e risorse economiche per la Cgil, collaborano con gli Enti previdenziali e cercano, in ogni modo, di tacitare il malcontento in quanto le lotte, ad esempio per migliorare le pensioni, sono in contrasto con le scelte del PD.

Nel 1992 ho concluso l'esperienza sindacale, non avevo ancora 60 anni.

All'Inca la mia vita personale ha subito una svolta. Ho conosciuto una persona con cui, ancora oggi, condivido affetto, modi di vita e scelte politiche e con la quale convivo felicemente.

L'esperienza del mio primo matrimonio, da cui sono nate due figlie, oggi cinquantenni, non era stata né felice, né appagante. Di chi la colpa? Certamente anche la mia: in qualche modo mi accontentavo del tran tran quotidiano, impegnando tutto me stesso nella lotta politica. Della mia vita privata non aggiungo altro, certamente non sarei obiettivo.

Dal 1991 il mio impegno è stato totale in Rifondazione Comunista, dove continuo a militare. Ho svolto ruoli nazionali nel campo della previdenza (di cui ero responsabile nazionale), in particolare in quello pensionistico, elaborando proposte per un sistema pubblico, solidale e universale.

Ho scritto (con altri) opuscoli sulla materia, ho collaborato con Liberazione pubblicando numerosi articoli e curato, per quattro anni, una rubrica settimanale e l'ho fatto con direttori diversi: Palermi, Dotti, Curzi, Sansonetti, Dino Greco. Sono stato relatore al convegno del 2007 sulle pensioni, da cui sono uscite proposte innovative che oggi risultano ancor più valide.

Ho organizzato diverse Feste di Liberazione a Roma e tre Feste Nazionali a Castel S. Angelo, che furono di grande impatto sulla città dal punto di vista culturale, politico ed ideale e che dettero consistenti riscontri economici.

Ho fatto parte, ancor oggi, del Comitato Politico di Federazione e per alcuni anni della segreteria romana ricoprendo il ruolo di tesoriere.

Sotto la mia gestione furono risanati i 220 milioni di debito che si evidenziarono dopo la scissione cossuttiana del '98 e lasciai, dopo 5 anni di gestione, 315 milioni di attivo. In quegli anni, con il contributo della Direzione Nazionale furono acquistate la sede della Federazione romana, quella di Fiumicino, del IV Municipio (tutte e tre vendute), via Dancalia, Tor Pignattara, Centocelle e IX Municipio, Ponte Milvio. Furono regolarizzati, pagando 113 milioni di arretrati, i contratti di 13 circoli con lo Iacp.

Contemporaneamente ho sempre operato nel mio circolo.

Nel novembre 2002 ho costituito l'associazione culturale e di volontariato “Articolo 3 – diritti sociali e civili”, un'esperienza interessante nel campo dei diritti, nella promozione sociale, per dare spazio a chi non ne ha. Un'associazione laica e antifascista e di sinistra.

I 20 anni di militanza in Rifondazione Comunista sono stati pieni di luci e ombre: un travaglio dopo la caduta del muro di Berlino, che ancora non si è concluso.

 

A conclusione di questa nota metto su carta alcune mie riflessioni

Lo devo al Pci se una persona come me, figlio di gente povera, con un'educazione cattolica (sono stato 3 anni nel seminario arcivescovile di Faenza) con la sola licenza elementare, ha avuto la possibilità di crescere culturalmente, di esercitare ruoli importanti di direzione, di gestione, di guidare lotte di grande impatto sociale anche in ambito nazionale.

Se confronto il mio vissuto con quello dei miei compaesani e dei miei fratelli riconosco di essere stato fortunato, non tanto sul piano economico, ma su quello morale e personale.

Lo devo al Pci se ho imparato a ragionare con la mia testa e guardare, anche semplici e modesti episodi, da un punto di vista di classe. O se il mio riferimento non è il Paese o la città o la nazione in cui vivo ma il mondo e del mondo gli ultimi, gli oppressi, gli sfruttati.

Oggi la Sinistra (e quelli che si richiamano alla Sinistra) è provinciale, non si indigna nemmeno se vengono assassinati decine di minatori africani. Ricordo, per memoria, l'impegno dei comunisti per il Vietnam, la liberazione dell'Africa e dell'Asia dal colonialismo, le forti manifestazioni della pace contro i colpi di stato in Grecia ed in Cile, le armi atomiche …

Ho militato e svolto ruoli di direzione senza mai far parte di aree, gruppi, cordate, fazioni o correnti. Il culto della personalità (forse qualche mito l'ho avuto) non mi ha mai impedito di ragionare con la mia testa. Ho rispettato il “centralismo democratico”, mi sono attenuto sempre alle scelte del partito o della Cgil, anche se non le condividevo in toto o in parte: ricordo i fatti di Ungheria e la svolta dell'Eur di Lama.

Quando Occhetto ha sciolto il Pci (in questo caso il centralismo democratico non poteva essere evocato) sono entrato in Rifondazione Comunista. Il non far parte di gruppi e correnti, già prima della nascita di Rifondazione, sia nel partito che nel sindacato, mi ha sempre creato problemi al momento della formazione degli organismi.

In Rifondazione Comunista le correnti sono state – ed ancora lo sono – un cancro distruttivo che ha portato a paralisi e scissioni, alla perdita di militanti, ad una generale sfiducia. Spesso venivo chiamato in momenti di emergenza: dopo le scissioni, le crisi finanziarie, le tensioni interne, i congressi difficili, salvo poi ignorarmi nel momento della formazione degli organismi. Ma non ho mai rivendicato posti e ruoli. Sono fiero di aver contribuito a realizzare, nel mio circolo, una gestione unitaria, al di là delle correnti che invece obbligavano, in base ai documenti e regolamenti congressuali, ad eleggere dirigenti e delegati.

Nella mia lunga militanza ho anche subito processi ed una insistente (pericolosa) persecuzione dei fascisti. Non ho ceduto nemmeno quando mi è stato autorevolmente consigliato di lasciare Roma. La mia visione di classe mi ha fatto sposare il “pacifismo” come arma di lotta, ma non ho mai porto l'altra guancia. Come credo che tutte le forme di lotta siano legittime se funzionali al cambio della società, se non danneggiano la causa o rafforzano il nemico di classe.

Nel 1954 non riuscivamo a migliorare il riparto dei prodotti per i mezzadri: ebbene l'ho realizzato sistematicamente facendo sparire sacchi di grano dal mucchio del padrone per darli al contadino. Sono stato condannato per “furto aggravato e continuato, associazione a delinquere, abuso di prestazione e relazione d'opera”. Per i giudici era furto, per me era lotta e ne andai fiero.

Anche quando ho svolto ruoli impegnativi a livello nazionale non ho mai trascurato l'attività di sezione. Solo nei 4 anni che ho operato nella Federbraccianti di Ravenna non sono riuscito a collegarmi fattivamente alla sezione, avendo cambiato casa tre volte e trovato una certa freddezza nei compagni e compagne che la dirigevano in modo burocratico anche se con efficienza, in quanto organici alla “Casa del Popolo”.

A Roma invece sono riuscito, con qualche iniziale difficoltà, ad integrarmi, operando concretamente e contribuendo ad un forte sviluppo dell'attività politica ed alla crescita del partito. Ho trovato sempre tempo per fare vita attiva nella sezione territoriale del Pci dal 1966 al 1991 fino ad oggi. Sono sempre stato molto critico con quei compagni e compagne che, con la scusa che lavoravano a tempo pieno nel sindacato, nel partito, in altre organizzazioni di massa, venivano in sezione solo il giorno del congresso o facevano una veloce visita alla festa de l'Unità.

La mia volontà di fare, di lottare, è sempre stata alimentata dai tanti compagni e compagne cosiddetti “di base” e dai tanti lavoratori e lavoratrici che faticavano tutti i giorni: mi facevano stare con i pedi per terra, percepire il loro sentire, capire le loro istanze, sofferenze, sogni ed anche le debolezze e da tutto questo ho tratto insegnamento per agire.

“Rivoluzionari di professione” così ci consideravamo noi comunisti. Ne eravamo onorati ed orgogliosi ovunque operassimo: partito, sindacato, associazioni di massa, istituzioni compreso il Parlamento.

Nel tempo i funzionari sono diventati dirigenti, addetti, esperti, impiegati, burocrati.

Gestire l'esistente al meglio, lenire le ferite più gravi, concertare con il governo ed i padroni, dopo il 1990 ha portato la Cgil ed il Pci (Pds - Ds) ad accettare il capitalismo e persino ad oliarne il meccanismo su cui si basa lo sfruttamento.

Dal 1980 mi sono sentito sempre più in difficoltà nella Cgil e nel Pci perchè ne condividevo sempre meno le linee che si esplicitavano in cedimenti, in rinunce. Le tessere Cgil si rinnovavano automaticamente, attraverso le deleghe si riscuotevano i contributi, la comune gestione con i padroni degli Enti, poi la previdenza integrativa. Il sindacato perdeva l'autonomia e l'iscritto contava sempre di meno.

Ero stipendiato dalla Cgil: era la mia unica fonte di reddito e l'attività sindacale era il mio lavoro. Quando sono stato nominato in Enti (Scau, Enpaia, Case braccianti …) ho rilasciato la delega e non ho mai incassato i gettoni di presenza.

Quando un sindacalista va in pensione non va a casa, ma con un congruo compenso continua a collaborare nelle strutture del sindacato. Sono una mosca bianca in quanto non ho voluto continuare ad avere alcuna collaborazione stipendiata, ma continuo ad essere attivo nel Prc: un rivoluzionario di professione.

 

 

 

Data documento: 
Sabato, 1 Gennaio 2011
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